Le finali di Coppa dei campioni
Tabellino | Full match | Video (British Pathé)
- La prima Coppa (Eupallog Gallery)
- Quattro chiacchiere con Pozzo a Ten Bells, aspettando la finale (Eupallog Cronache e storie)
- Riepilogo UEFA
- Storie di calcio
- Storie di sport
- Magliarossonera
Da Corriere della Sera (rievocazione di Mario Gherarducci)
"Mentre in patria l'Inter si aggiudicava il suo ottavo scudetto, i preparativi rossoneri per la finale londinese furono abbastanza consueti. «Un paio di giorni di ritiro e l'arrivo a destinazione soltanto alla vigilia della partita», riferisce Maldini. Più laborioso fu probabilmente il varo della formazione. «Gipo» Viani, che ricopriva la carica di direttore tecnico e si considerava un tattico sapiente e astuto (uno dei suoi vanti era l'invenzione del «libero» allorché guidava la Salernitana), premeva per una mossa che privilegiava l'impiego di Pivatelli, un ex attaccante che al Milan s'era trasformato in centrocampista, da utilizzare come finta ala destra per contrastare le iniziative di Coluña, ritenuto il cervello del Benfica. L'allenatore Nereo Rocco non avrebbe invece voluto stravolgere l'assetto della squadra, schierando due ali di ruolo come Mora e Barison. La spuntò Viani, l'escluso fu Barison e la trovata di «Gipo», per certi versi, si sarebbe rivelata determinante. L'avvio della finale fu favorevole al Benfica, in vantaggio dopo 18' con un gol di Eusebio, la mitica «pantera nera» del calcio portoghese. «Occorreva modificare qualcosa nel nostro assetto difensivo - riferisce Maldini - ma comunicare con Rocco era impossibile perché a Wembley le panchine erano lontanissime dal campo e due giganteschi poliziotti impedivano al nostro allenatore di muoversi. Io ero il capitano e mi assunsi la responsabilità di invertire un paio di marcature. Trapattoni andò su Eusebio, che stava facendo ammattire Benitez, e il peruviano fu destinato a occuparsi di Torres». Una mossa azzeccata perché la sfida cambiò fisionomia. Al 13' del secondo tempo arrivò il pareggio, siglato da José Altafini, che rammenta: «Il pallone mi arrivò tra i piedi al limite dell'area, spedito da David o da Trapattoni. Non ci pensai sopra e calciai di destro forte e angolato». Due minuti più tardi si verificava l'episodio al quale il Benfica avrebbe attribuito la causa della sua sconfitta: l'infortunio di Coluña, colpito duro da Pivatelli e rimasto in campo nonostante una piccola frattura a un piede perché all'epoca non erano state ancora introdotte le sostituzioni. «Sgambettai Coluña, lo ammetto, ma senza intenzione di fargli male, tant'è vero che l'arbitro inglese nemmeno mi ammonì», precisa Gino Pivatelli, perseguitato a lungo dalla fama di «killer» per quell'intervento, giudicato premeditato dai portoghesi. «Sono comunque convinto che avremmo vinto anche se Coluña fosse rimasto integro sino alla fine. Fu una bella partita, veloce e combattuta. Ricordo che l'elogio più significativo arrivò dalla stampa inglese, secondo la quale chi non era andato a Wembley s'era perso un grande spettacolo». Puntualizza Rivera: «C'erano diversi vuoti sulle tribune, probabilmente perché si giocava nel pomeriggio di un giorno feriale. Credo che proprio da allora le finali europee siano state programmate sempre di sera». Sei minuti dopo l'infortunio di Coluña, fu ancora Altafini a battere Costa Pereira, risolvendo la finale e portando a 14 gol il suo bottino da record nelle nove partite europee della stagione. «Rivera intercettò il passaggio di un portoghese e il pallone schizzò verso di me. Volontario o casuale che fosse, l'assist di Gianni innescò il mio scatto verso la porta del Benfica. Non so se i due gol di Wembley siano stati i più importanti della mia carriera. Di certo, hanno consegnato me e il Milan alla storia del pallone. Era la prima volta che una squadra italiana saliva sul trono d'Europa». Complimentati nello spogliatoio dal presidente Andrea Rizzoli («mi pare che il premio promesso fosse di un milione di lire a testa, una cifra non eccezionale» riferisce Rivera), i giocatori vennero a sapere poco dopo che quella di Wembley era stata l'ultima apparizione sulla panchina del Milan di Rocco, che s'era già accordato col Torino («niente di scritto, una semplice stretta di mano con il presidente Pianelli»), da dove nel '67 sarebbe nuovamente approdato al club rossonero. Colpa di una convivenza sempre più difficile con Viani, di una predilezione nemmeno tanto velata di Rizzoli verso il direttore tecnico e delle frequenti battute ironiche di qualche dirigente rossonero un po' snob sulle origini campagnole del popolare «paron», sulla sua scarsa eleganza e sulla sua civetteria di esprimersi quasi sempre in dialetto triestino. Una scelta, quella di Rocco, che versò una spruzzata di malinconico sconcerto su quello che sarebbe rimasto un giorno da incorniciare nella storia del Milan e del calcio italiano".