Coppa Rimet, semifinale
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«How do you spell Pelé? G-O-D». Così il Sunday Times dopo la finale di Mexico '70. Zagalo non fece come il predessore Adhemar Pimenta (quello che tenne fuori Leonidas nella semifinale del'38); non risparmiò Edson Arantes do Nascimento in vista dell'amichevole con il Messico programmata per fine settembre. Certo, siamo autorizzati a ritenere che tra Leonidas e Pelé fosse più irrinunciabile il secondo; tant'è vero che, fra i quindici brasiliani considerati degni di entrare nella lista dei cento pedatori più forti del XX secolo, Pelé c'è (e capeggia l'elenco), Leonidas no. Quando fece il suo ingresso sull'assolato campo del Jalisco, O Rey era già più che un monumento, si sa; aveva (in fondo) solo trent'anni, e la sua aura leggendaria dipendeva anche dalla distanza che lo separava da noi. A differenza - per dire - di Alfredo Di Stéfano, non era venuto a guadagnare gloria e quattrini in Europa. Inoltre, il suo contributo alle conquiste brasiliane del '58 e del '62 è oggi da taluni ridimensionato, e rivalutato - per dire - quello che offrì l'estrela solitaria, Mané Garrincha. Tutto è opinabile, nel football.
Il gioco duro della Celeste, la tradizione, il ricordo del Maracanaço, il miglior arquero del Sudamerica, un arbitraggio tollerante non bastarono a fermare il Brasile. Pelé continuava la sua corsa contro se stesso. Poco più in là, per l'ultima sfida, lo aspettava un roccioso difensore della vecchia Europa. Tutti sanno come andarono le cose: «prima della partita mi ripetevo che era di carne ed ossa come chiunque, ma sbagliavo», ammetterà Tarcisio Burgnich.