Le finali di Coppa dei campioni
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Un team olandese schierato con la grande coppa per le foto-ricordo non regalava immagini assolutamente inedite al continente calcistico. L'anno prima il Feyenoord aveva trovato un posto nell'albo d'oro sgomitando il Celtic, che aspirava alla seconda nicchia. E ancora due anni prima, in fondo, i lancieri avevano pure e appunto lanciato la loro prima sfida, venendo respinti dall'esperta (è un eufemismo) masnada rossonera. Exploit che molti superficiali osservatori ritenevano casuali, nell'epoca in cui il calcio praticato dalle nazionali rifletteva ancora la tradizione dei club (e viceversa); e nessuna pagina rimarchevole avevano mai scritto, dalle origini del gioco, la terra dei mulini a vento e le squadre delle sue maggiori città. D'altra parte, che significativi e irreversibili mutamenti fossero in atto è testimoniato anche dallo sparring-partner dell'Ajax sul sempiterno prato di Wembley. Nessuno più dell'uomo che sbucava dal tunnel, guidando i verdi del Panathinaikos all'inevitabile sacrificio, poteva rappresentare il passato, quale testimone di un football definitivamente consegnato a storie e leggende. Ferenc Puskas non era solo l'Aranycsapat o il grande Real: simboleggiava il calcio della mitteleuropa che era stato sempre avanguardia, sin dagli anni '20, calcio di grandi e inutili vittorie e di inattese e importantissime sconfitte. Logico che Eupalla affidasse a lui il compito di testimoniare l'avvio di una nuova epoca, perché l'antica non venisse del tutto dimenticata.
Fu dunque alla sacerdotale presenza di Puskas, estemporaneo allenatore del Panathinaikos, che il ventiquattrenne Johann Cruijff, l'Ajax disegnato da Rinus Michels e il suo rivoluzio-nario Totaalvoetbal, poi replicato con maglie di colore diverso nella competizione fra le nazioni, si presero la Coppa, avviando un'egemonia tecnica e soprattutto culturale che, per molti aspetti, perdura.
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